Mi ricordo la libreria Gulliver nella strada vicino la mia abitazione, subito dopo il ponte in realtà, o quantomeno oggi mi sembra ben poco distante dal luogo di partenza, il gelato in primavera con fragola e pistacchio, un abbinamento che in adolescenza ho odiato senza un motivo apparente, semplicemente per i colori di cui era composto. Dinnanzi la Villa, il leone logoro dalla pioggia era privo di scritte, c’erano tanti piccioni, ricordo che li rincorrevo sulla bicicletta o a piedi nei pressi di una fontana vuota in cui giocavano dei bambini, a volte faceva caldo, altre freddo, e poi c’erano le altalene sempre occupate, lo sguardo chissà quanto vigile ed io che mi vergognavo tantissimo di fare conoscenza, non volevo avvicinarmi a nessuno, avrei voluto che fosse lui a giocare con me, lo dicevo spesso ma non poteva salire su una casetta così piccola, non poteva nascondersi sotto quella più alta in legno, non poteva salire con me sullo scivolo. A volte mi spingeva quando ero seduta, appesa a due catene forti che scricchiolavano. Una volta andammo nel giardino del condominio vicino, dietro il cancello verde, indossavo dei pattini neri e gialli che mi facevano male alle caviglie. Mi lasciarono i segni, sembrano due stigmati, di tanto in tanto si avvampano e si allargano senza motivo, altre volte spariscono del tutto, sono lievi.
«Quando crescerai ricordati che sei stata qui, su questa roccia assieme a tuo padre.» L’avevo completamente dimenticato assieme a queste parole, eppure i segni dei pattini ci sono ed era proprio li che l’indossavo e li toglievo prima di tornare a casa. Una volta mi porto nel negozio di giocattoli ed un’altra ancora dinnanzi alla mia scuola. Mi ricordo casa sua, aveva un odore di cucinato che detestavo ma era vuota, non c’era nessuno e l’arredamento era pacchiano ma accogliente. C’era una candelina rosa dietro dei numeri bianchi contornati d’oro alla sinistra di un televisore dell’epoca, era nero e grande abbastanza per essere osservato dal tavolo sulla destra dell’ingresso, le chiavi di trovavo dietro la porta, sempre sulla destra, poco prima del tavolo coperto da una tovaglia bianco sporco, dinnanzi ad esso la cucina ma verso sinistra delle scale alla sui sinistra, salendo, potevo osservare una libreria strana piena di oggetti inutili che appartenevano a suo padre, tra i tanti una bottiglia verde e panciuta. Le scale portavano al piano superiore ma la sua stanza era essenziale, come quella di ogni uomo infondo, c’era un attrezzo da palestra, un letto ed un computer, prese una cosa quando avevo già finito le caramelle del telefonino di plastica trasparente, dovevamo andare da un suo amico a portargli una cosa, li c’era la famosa tovaglia rossa sul tavolo della piccola cucina. Io non ero come lui eppure andavo male in geografia allo stesso modo. Ricordo qualcosa, forse non tutto, ma qualcosa. Non riesco a sorridere alla mia putrida anima, chissà quale sentimento si nasconde nel mio inconscio, io gli ero molto affezionata, non posso dare la colpa a nessuno di aver dimenticato, ho solo sofferto troppo. Voglio volare come una farfalla.
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