- giovedì, 28 aprile 2011 , 20:41 -
«Non ci può essere il colore quando manca la civiltà.»
Il grido di dolore che si esala nell’aria ha l’aspetto di un bambino cereo.
La disperazione non ha voce, è ovattata e stride con noncuranza contro le pareti della mia psiche che turbata osserva l’armonioso contrasto privo di luci ed ombre. Nulla ha forma eppure tutto ha volumetria indotta nella retina. Sono una macchina, lo sciocco prototipo della società che informe e perfetto tenta di esaltarsi al rigore dell’abisso.
Il fiore e la spada, il simbolo e la curva, la mia maschera non è altro che natura ed abominio.
L’impulso crea e manipola, viene attaccato da denti aguzzi, risplende come un occhio nell’alto del vertice ed un antico sussurro arriva alle mie orecchie come poesia irrisolta. La vi è il confine tra l’infinito ed il finito, io correndo mi trovo nel baratro che separa ambedue e roteo come un campo elettrico attorniato da un magnete. Muto come il giorno e la notte ed al contempo continuo ad esistere.
Detesto cedere alla tentazione ma quel fiore ancora stretto tra le dita rigide cos’è se non un frammento del passato? I campi fiorati avevano un bellissimo tono, sembravano acerbi colori su di una tavolozza ma oramai non v’è riposo per la candida stoffa, si tratta solo di finzione ma senza di essa non è possibile vivere.
Risplende un lume nel cielo, m’invia verso un luogo sconosciuto ma non ho appiccato il fuoco nel mio animo. Brucia, avvampa, dirada la foresta illuminata e dentro di me si agita sinuoso quel serpente immondo che non ha forma. Una donna urla senza urlare e quel suono giunge alle mie orecchie.
I suoi occhi sono come braci nell’oscurità, un punto saldo e prezioso che si sgretola fiammante dinnanzi alla fugacità di un attimo. Piove dal cielo e non sono lacrime, non sono ricordi, non sono pensieri, sono solo parole, le stesse che incise mi rammentano il ricordo frastornate dei giorni lontani che ritornano assieme ad un proposito insensato che deve avere sensatezza.
Non ho cura di me come di ogni cosa nel mondo, non m’interessa quanto lungo sarà questo cammino, l’importante è farlo in groppa alla mia dignità, con il mento alto ed il sorriso smagliante, di scherno verso ogni piccolo apostolo dell’ipocrisia. Ed è una macchia, è un sospiro, è una sofferenza dilaniante che dura un istante, che spezza il silenzio e la spontaneità, tutto quanto solo per l’assurdo gioco del destino.
Brilla e piange, piovono nubi di cenere. Scaglie d’argilla, mattoni frantumati, un monito che accoglie il sentieri di ogni uomo. Tutti sono capaci, tutti sono incapaci. Il mondo è pieno di antitesi ed io sono un ossimoro. Vi è lo strazio, vi è la pena, e ticchetta inconsistente ma tutto va vissuto, si perde nell’aria come nebbia al mattino ed attinge all’unica essenza che esiste. Negazione per negazione equivale ad un’affermazione ma affermazione per affermazione non sarà mai negazione. Il tutto per un assurdo sberleffo dell’uomo che ha deciso e compreso la teatralità delle prove confutabili, eppure se nulla fosse calcolabile il tempo sarebbe relativo ed io non esisterei nemmeno.
Leggera come una piuma.
Leggera come l’aria.
Inconsistente ed inutile ma al contempo necessaria.
Non desidero volare, voglio solo camminare, voglio continuare a sentire la terra sotto i miei piedi atrofizzati, voglio continuare ad essere ancorata su di un suolo putrido, è la mia patria.
Dietro la spada spezzata la forza dirompente del toro annienta la guerra. È brutale, è la spinta vitale disarmante ed assassina nata dall’eterno nulla, eppure nulla è anche tutto, ergo antiteticamente queste sono solo opinioni.
Ho voglia di piangere ma i miei occhi sono arsi, mi sembra di risiedere sulle rive indiscusse di un mare ben conosciuto. Immobile, sotto il cocente sole di luglio. Abbracciami. Sento il tuo calore e non voglio altro, basta a far sopravvivere il fiore.
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