- giovedì, 28 aprile 2011 , 22:26 -
6/12/2010, 23:30: Pensavo di conoscere il sangue sino a quel giorno, un liquido rosso un po’ più denso degli altri dotato di una consistenza simile a quella dell’olio, in grado di asciugarsi e rapprendersi a proprio piacimento se posto al contatto con l’aria, là dove particelle ematiche piangono la propria sconfitta stillando via una goccia dopo l’altra da un corpo in disuso il quale ha perso ogni speranza dopo il primo getto.
Parlare della notte dicendo che è buia sembrerebbe un eufemismo, eppure non tutte le volte può essere identificata con il medesimo aggettivo. Parlando dell’oscurità non sempre viene associata un’ora della giornata bensì a paure recondite racchiuse in un cassetto della propria coscienza, c’è chi afferma siano solo soggetti incompresi di una mera scalata sociale laddove il gradino più basso è messo in ombra, chi ha il timore di svoltare l’angolo perché vi è l’ignoto ed è proprio questo il sinonimo che accosterei alla notte: ignoto. Sin dall’età infantile le persone sviluppano un’irrefrenabile paura nei confronti di ciò che va aldilà dei propri organi di senso e tra i tanti vi è la vista, la quale viene meno in un ambiente chiuso ed opprimente sebbene questo non sia necessariamente chiuso o opprimente, anche vasti spazi racchiudono in se l’oscurità ed anche nel più pieno giorno è possibile scorgerla negli occhi di un individuo.
Ed è proprio di questa notte che parleremo, quella racchiusa nel cuore di un essere umano che sotto i raggi solari camminava indisturbato trascinando dietro di se la tristezza in quanto quest’ultima svolge un ruolo fondamentale nelle relazioni ed è a discapito della medesima che si sviluppano altre sensazioni coincidenti o contrastanti.
Non sopportare se stessi, osservare la propria immagine desiderando che fosse diversa, sperare di non riconoscersi un mattino dinnanzi allo specchio, crogiolarsi nell’illusione che un giorno la nostra vita potrà essere paragonata ad un film affinché tutto venga vissuto con distacco dalle carni, questa è la sua rovinosa esperienza, colma di eterna insoddisfazione nei confronti di se stessa. Ogni sua piccola o grande impresa non sarebbe stata mai abbastanza per i suoi canoni, tutto poteva essere superato o per lo meno questo era un suo debole pensiero che con l’avanzare degli anni si era ingigantito affondando le proprie radici la dove risiedeva la psiche. Sentiva costantemente quel richiamo così come una voce lontana che voce non era, la sua stessa testa o probabilmente se stessa, un impulso irrefrenabile che non avrebbe potuto contenere nel suo piccolo involucro benché non fosse poi così piccolo. Paragonato a molti appariva terribilmente grottesco, una scatola vuota che implodeva poiché contenitore di fin troppe frivolezze che con il tempo erano andate ingrandirsi. Uno stomaco troppo pesante, un cuore fin troppo grande, un fegato sul quale gravavano numerose pillole per il mal di testa, un cervello non abbastanza ingombrante, un naso gigantesco, una voluminosa protuberanza all’altezza dell’addome, due cosce terribilmente sproporzionate ed un seno fin troppo prosperoso che deformava magliette, maglioni, cappotto e chi più e ha più ne metta.
Non aveva i ricordi necessari per accettare se stessa, con la sua mania di curiosare in ogni dove non sopportava l’idea che un pezzo del proprio passato fosse stato estirpato dalle memorie come se nulla fosse, un puzzle incompleto che la tormentava con dolorose fitte alla testa alle quali non sapeva far capo nella dovuta maniera. Si muoveva pesantemente sebbene si sentisse più leggera del solito ed ossessiva era la vista di quei pedali che da numerosi giorni roteavano nella sua mente. Un passo dietro l’altro era riuscita a rinchiudere il proprio essere là dove sapeva non ci sarebbe stata via d’uscita e nonostante tutto non ne chiedeva una sebbene mostrasse il contrario, falsità di convenienza. Più pronunciava quelle parole e più si convinceva del contrario, pertanto le pronunciava ancora e ancora a differenti persone, non chiedeva che qualcuno buttasse un occhio su di lei, le bastava guardare al suolo per comprendere il futuro di una simile azione e nonostante tutto la distruttività propria di una simile spasmodica ricerca era sostenuta da se stessa, un metodo tutto nuovo per affrontare la cosa, per sorridere sfiorando le ossa vicino le spalle e grugnire infastidita osservando l’abominevole pezzo di carne che penzolava dalle braccia stesse. Un’osservazione attenta che in ogni minuscola posizione doveva rivelare il suo desiderio più ambito mentre sulle scapole premeva una forza misteriosa che contorceva le interiora, delle ali mai nate che stavano reclamando vendetta dinnanzi al proprio bozzolo. Avrebbe voluto esplodere in una moltitudine di colore, dimentica della maleodorante impresa e soddisfatta ad ogni piccolo passo. Il senso di colpa era andato sciamando giorno dopo giorno, quando un’irrefrenabile eccitazione avvolgeva le sue membra sotto la costrizione mentale che imponeva a se stessa. Un braccio bloccava la sua testa, la teneva in dietro, perfettamente curva nell’udire quelle note calme e forti al contempo che non erano mai le stesse, un’altra mano percorreva il suo collo partendo poco sopra il petto e si arrampicava mostruosamente sul mento capitolando come un parassita la dove la cavità necessitava di un freno, le dita venivano inglobate e premevano contro la lingua bloccandola verso il basso mentre il braccio furioso la piegava in avanti, quasi come se stesse danzando una grottesca guerra. Dinnanzi al varco, il bianco candido appena pulito, un rituale continuo che si faceva largo volta dopo volta ed ancora giù, più in profondità. Uno spasmo ne muoveva le membra, era sinuoso e goffo al contempo, due visioni contrastanti, ancora un altro ed un altro ancora, poi quei pochi etti si riversavano sul fondo, osservati a tratti solo con disprezzo. Non vi era realmente necessità di spingersi a tanto se solo non li avesse adocchiati con ingordigia sulla tavola, o forse no, nelle sue memorie erano ancora ben visibili e a cadenza martellavano sulle sue palpebre come immagini onnipresenti. Il sapore non era sapore, non era autentico, non era decretato. In un primo momento sembrava piacevole ed ora invece distorto ripercorreva i suoi passi. Richiamavano dall’interno di quell’inutile involucro. Ogni sua preoccupazione veniva racchiusa in un gesto sebbene preoccupazione non fosse, realmente si trattava di macabre aspettative e non interessava quanto la vita fosse breve, dinnanzi allo specchio nulla aveva peso se non l’espressione orrendamente distorta del suo volto. Se solo quello avrebbe potuto essere cambiato rigettando dei grassi probabilmente sarebbe stata soddisfatta. Ed ancora una volta premevano contro le scapole, sembravano strappare la pelle opprimente, le avvolgeva come se non potessero uscire da quell’inutile bozzolo fatto di carne umana. Era grottesca la sua cassa toracica, orrendamente deforme a causa dell’esercizio dei polmoni compiuto nelle apnee durante i pochi anni di nuoto, e poi nessuna giustificazione poiché le costole sarebbero potute retrocedere, e invece no, con una conformazione fisica ripugnante desiderava fasciare e restringere quel punto, abbandonando le rotondità del seno che negli anni avevano causato unicamente problemi. Contava le costole che si scorgevano nitidamente ma non era abbastanza neppure se il piercing all’ombelico risultava visibile, piegandosi di lato era possibile scorgere dalla parte offesa un ripugnante rotolo di lardo che informe galleggiava nell’aria sfidando la forza di gravità. Ed ancora avvolta da quelle dita interne, troppo grandi e dure per essere chiuse a pugno desiderava implodere in una morsa letale. Se solo si fossero piegate avrebbero perforato gli organi e sarebbe fuoriuscito una moltitudine di sangue dai medesimi ma chissà se il dolore era il paragonabile a quello che le riservava la testa e lo stomaco quando si accanivano contro di lei. Era una routine, abitudine pregnante e sempre presente in ogni dove, in ogni momento, senza tempo poteva ripetersi tassello dopo tassello seguendo i colori indicati: rosso, giallo e blu, alternati a ripetizione, ricominciava il circolo ed era lo stesso circolo che roteava attorno a lei sin da quando aveva visto la luce il primo giorno in cui gli occhi glielo avevano permesso. Era cresciuta ed osservava ancora quella sequenza luminescente attorno a se, avrebbe allungato la mano ma oramai conscia del fatto che malgrado gli anni avessero allungato l’arto non sarebbe riuscita a toccarla, rinunciava in partenza sebbene a tratti tentasse la sfida in attimi di follia. Voleva raggiungere quell’infinito carro colorato ancor più bello del prismatico effetto casalingo dell’arcobaleno. Distesa sul letto con la pancia rivolta verso il materasso continuava ad osservarlo, le gambe piegate verso l’alto ciondolavano ed un sorriso poteva essere rivisto nello specchio stesso che tagliato frammentava la luce e la scomponeva in diversi colori. La coperta sapeva di pulito e le lacrime non scorrevano con così tanta frequenza allora, la prima grande bugia che diviene verità in sessantasette metri quadrati, il desiderio di raggomitolarsi tra i giocattoli nello sgabuzzino, la terribile voglia di sprofondare sotto le coperte immaginando un mostro che ne fuoriusciva piegato come un pupazzo di pezza, poi una campana bianca e le palpebre che si aprivano e chiudevano velocemente. La forza smisurata del pensiero e della potenza individuale.
Sarebbe stato bello vivere disegnando arcobaleni nel cielo.
La vita non era al suo capolinea sebbene ad aiutarla era lei stessa, viaggiava ad una velocità sorprendente come se fosse un treno, lo stesso treno che le roteava attorno costantemente. L’acqua che scorre, le mani che si lavano a vicenda, dimentiche del ripugnante atto e sorridendo vi era l’orgoglio, la soddisfazione di ogni minimo conato che conduceva ad un’implosione interna. Avrebbe desiderato rimpicciolire nel suo stesso involucro giacché era proprio questo ad infastidire così come ciò che conteneva, uno stomaco troppo grande, un fegato imbarazzato, dei polmoni capricciosi, un cervello non abbastanza grande ed un utero ingombrante. Dovevano esplodere.
Il trucco colava, la sigaretta veniva posata sulle labbra ed accesa rinunciando ad un altro briciolo di vita, la disprezzava, non ne aveva bisogno, la rincorreva e la sbeffeggiava. Già in precario equilibrio chiunque avrebbe detto di non farlo, il mentolo pizzicava contro le pareti della gola, le narici fremevano e quel sapore inconfondibile scendeva lungo la trachea. Scendeva, scendeva. Li vedeva gonfiarsi e restringersi e poi fuoriusciva candido.
Se la vita è corta in principio perché accorciarla direte voi, esattamente contrario è il principio che la muoveva a tanto, essendo corta aveva bisogno di essere vissuta come si doveva. Nei sollazzi, nei sorrisi, nelle speranze inattese e in quelle attese, ogni cosa aveva il suo perché ed è bene che ogni esperienza avesse il suo sapore anche se questo non avrebbe dovuto convivere con un rimorso. Il rimorso stesso di non aver provato, di non aver scelto e di non aver goduto. Che distorta filosofia del piacere. Tra i tremori romantici s’insinuavano, scorrendo la penna rilasciava inchiostro e questo penetrava nelle pagine, dalle pagine il sapere nella mente, lungo le sinapsi e la terminazione nervosa componeva, si beffava del destino assaporando il presente come se fosse gelato. Così imparò le disavventure dell’imperialismo, il pessimismo leopardiano e la filosofia romantica, incontrando autori già conosciuti e condivisi, probabilmente male interpretati ma nella speranza che almeno uno di essi l’avrebbe compresa. Una mano sorregge la testa, il pensiero si sofferma lontano: onda, triangolo cerchio blu. Che ricordi saranno?
Nulla è mai abbastanza, nulla è mai certo ed ancora, ancora, ancora, l’avrebbe fatto di nuovo, avrebbe compreso meglio delle parole, sarebbe diventata ancora più grottesca ai suoi occhi, non avrebbe sopportato la vista del proprio corpo dinnanzi allo specchio ed avrebbe ricominciato a scrivere la medesima cosa che era stata cancellata, con insistenza.
Dovresti fare qualcosa per cui essere ricordata.
Dovrei ricordare innanzitutto.
Dovresti prendere cento.
Dovrei prendere coscienza di me.
Magnifico. Sei un’artista.
Sono una bugiarda.
Non è mai abbastanza.
Mai abbastanza. Mai abbastanza. Mai abbastanza.
È stato bello raccontare la mia storia.
Lo so.
Non ho mai compreso cosa fosse realmente il sangue sino a quel giorno, un liquido rosso un po’ più denso degli altri dotato di una consistenza simile a quella dell’olio, in grado di asciugarsi e rapprendersi a proprio piacimento se posto al contatto con l’aria, là dove particelle ematiche piangono la propria sconfitta stillando via una goccia dopo l’altra da un corpo in disuso il quale ha perso ogni speranza dopo il primo getto. Non era niente di tutto questo.
Parlare della notte dicendo che è buia sembrerebbe un eufemismo, eppure non tutte le volte può essere identificata con il medesimo aggettivo. Parlando dell’oscurità non sempre viene associata un’ora della giornata bensì a paure recondite racchiuse in un cassetto della propria coscienza, c’è chi afferma siano solo soggetti incompresi di una mera scalata sociale laddove il gradino più basso è messo in ombra, chi ha il timore di svoltare l’angolo perché vi è l’ignoto ed è proprio questo il sinonimo che accosterei alla notte: ignoto. Sin dall’età infantile le persone sviluppano un’irrefrenabile paura nei confronti di ciò che va aldilà dei propri organi di senso e tra i tanti vi è la vista, la quale viene meno in un ambiente chiuso ed opprimente sebbene questo non sia necessariamente chiuso o opprimente, anche vasti spazi racchiudono in se l’oscurità ed anche nel più pieno giorno è possibile scorgerla negli occhi di un individuo.
Ed è proprio di questa notte che parleremo, quella racchiusa nel cuore di un essere umano che sotto i raggi solari camminava indisturbato trascinando dietro di se la tristezza in quanto quest’ultima svolge un ruolo fondamentale nelle relazioni ed è a discapito della medesima che si sviluppano altre sensazioni coincidenti o contrastanti.
Non sopportare se stessi, osservare la propria immagine desiderando che fosse diversa, sperare di non riconoscersi un mattino dinnanzi allo specchio, crogiolarsi nell’illusione che un giorno la nostra vita potrà essere paragonata ad un film affinché tutto venga vissuto con distacco dalle carni, questa è la sua rovinosa esperienza, colma di eterna insoddisfazione nei confronti di se stessa. Ogni sua piccola o grande impresa non sarebbe stata mai abbastanza per i suoi canoni, tutto poteva essere superato o per lo meno questo era un suo debole pensiero che con l’avanzare degli anni si era ingigantito affondando le proprie radici la dove risiedeva la psiche. Sentiva costantemente quel richiamo così come una voce lontana che voce non era, la sua stessa testa o probabilmente se stessa, un impulso irrefrenabile che non avrebbe potuto contenere nel suo piccolo involucro benché non fosse poi così piccolo. Paragonato a molti appariva terribilmente grottesco, una scatola vuota che implodeva poiché contenitore di fin troppe frivolezze che con il tempo erano andate ingrandirsi. Uno stomaco troppo pesante, un cuore fin troppo grande, un fegato sul quale gravavano numerose pillole per il mal di testa, un cervello non abbastanza ingombrante, un naso gigantesco, una voluminosa protuberanza all’altezza dell’addome, due cosce terribilmente sproporzionate ed un seno fin troppo prosperoso che deformava magliette, maglioni, cappotto e chi più e ha più ne metta.
Non aveva i ricordi necessari per accettare se stessa, con la sua mania di curiosare in ogni dove non sopportava l’idea che un pezzo del proprio passato fosse stato estirpato dalle memorie come se nulla fosse, un puzzle incompleto che la tormentava con dolorose fitte alla testa alle quali non sapeva far capo nella dovuta maniera. Si muoveva pesantemente sebbene si sentisse più leggera del solito ed ossessiva era la vista di quei pedali che da numerosi giorni roteavano nella sua mente. Un passo dietro l’altro era riuscita a rinchiudere il proprio essere là dove sapeva non ci sarebbe stata via d’uscita e nonostante tutto non ne chiedeva una sebbene mostrasse il contrario, falsità di convenienza. Più pronunciava quelle parole e più si convinceva del contrario, pertanto le pronunciava ancora e ancora a differenti persone, non chiedeva che qualcuno buttasse un occhio su di lei, le bastava guardare al suolo per comprendere il futuro di una simile azione e nonostante tutto la distruttività propria di una simile spasmodica ricerca era sostenuta da se stessa, un metodo tutto nuovo per affrontare la cosa, per sorridere sfiorando le ossa vicino le spalle e grugnire infastidita osservando l’abominevole pezzo di carne che penzolava dalle braccia stesse. Un’osservazione attenta che in ogni minuscola posizione doveva rivelare il suo desiderio più ambito mentre sulle scapole premeva una forza misteriosa che contorceva le interiora, delle ali mai nate che stavano reclamando vendetta dinnanzi al proprio bozzolo. Avrebbe voluto esplodere in una moltitudine di colore, dimentica della maleodorante impresa e soddisfatta ad ogni piccolo passo. Il senso di colpa era andato sciamando giorno dopo giorno, quando un’irrefrenabile eccitazione avvolgeva le sue membra sotto la costrizione mentale che imponeva a se stessa. Un braccio bloccava la sua testa, la teneva in dietro, perfettamente curva nell’udire quelle note calme e forti al contempo che non erano mai le stesse, un’altra mano percorreva il suo collo partendo poco sopra il petto e si arrampicava mostruosamente sul mento capitolando come un parassita la dove la cavità necessitava di un freno, le dita venivano inglobate e premevano contro la lingua bloccandola verso il basso mentre il braccio furioso la piegava in avanti, quasi come se stesse danzando una grottesca guerra. Dinnanzi al varco, il bianco candido appena pulito, un rituale continuo che si faceva largo volta dopo volta ed ancora giù, più in profondità. Uno spasmo ne muoveva le membra, era sinuoso e goffo al contempo, due visioni contrastanti, ancora un altro ed un altro ancora, poi quei pochi etti si riversavano sul fondo, osservati a tratti solo con disprezzo. Non vi era realmente necessità di spingersi a tanto se solo non li avesse adocchiati con ingordigia sulla tavola, o forse no, nelle sue memorie erano ancora ben visibili e a cadenza martellavano sulle sue palpebre come immagini onnipresenti. Il sapore non era sapore, non era autentico, non era decretato. In un primo momento sembrava piacevole ed ora invece distorto ripercorreva i suoi passi. Richiamavano dall’interno di quell’inutile involucro. Ogni sua preoccupazione veniva racchiusa in un gesto sebbene preoccupazione non fosse, realmente si trattava di macabre aspettative e non interessava quanto la vita fosse breve, dinnanzi allo specchio nulla aveva peso se non l’espressione orrendamente distorta del suo volto. Se solo quello avrebbe potuto essere cambiato rigettando dei grassi probabilmente sarebbe stata soddisfatta. Ed ancora una volta premevano contro le scapole, sembravano strappare la pelle opprimente, le avvolgeva come se non potessero uscire da quell’inutile bozzolo fatto di carne umana. Era grottesca la sua cassa toracica, orrendamente deforme a causa dell’esercizio dei polmoni compiuto nelle apnee durante i pochi anni di nuoto, e poi nessuna giustificazione poiché le costole sarebbero potute retrocedere, e invece no, con una conformazione fisica ripugnante desiderava fasciare e restringere quel punto, abbandonando le rotondità del seno che negli anni avevano causato unicamente problemi. Contava le costole che si scorgevano nitidamente ma non era abbastanza neppure se il piercing all’ombelico risultava visibile, piegandosi di lato era possibile scorgere dalla parte offesa un ripugnante rotolo di lardo che informe galleggiava nell’aria sfidando la forza di gravità. Ed ancora avvolta da quelle dita interne, troppo grandi e dure per essere chiuse a pugno desiderava implodere in una morsa letale. Se solo si fossero piegate avrebbero perforato gli organi e sarebbe fuoriuscito una moltitudine di sangue dai medesimi ma chissà se il dolore era il paragonabile a quello che le riservava la testa e lo stomaco quando si accanivano contro di lei. Era una routine, abitudine pregnante e sempre presente in ogni dove, in ogni momento, senza tempo poteva ripetersi tassello dopo tassello seguendo i colori indicati: rosso, giallo e blu, alternati a ripetizione, ricominciava il circolo ed era lo stesso circolo che roteava attorno a lei sin da quando aveva visto la luce il primo giorno in cui gli occhi glielo avevano permesso. Era cresciuta ed osservava ancora quella sequenza luminescente attorno a se, avrebbe allungato la mano ma oramai conscia del fatto che malgrado gli anni avessero allungato l’arto non sarebbe riuscita a toccarla, rinunciava in partenza sebbene a tratti tentasse la sfida in attimi di follia. Voleva raggiungere quell’infinito carro colorato ancor più bello del prismatico effetto casalingo dell’arcobaleno. Distesa sul letto con la pancia rivolta verso il materasso continuava ad osservarlo, le gambe piegate verso l’alto ciondolavano ed un sorriso poteva essere rivisto nello specchio stesso che tagliato frammentava la luce e la scomponeva in diversi colori. La coperta sapeva di pulito e le lacrime non scorrevano con così tanta frequenza allora, la prima grande bugia che diviene verità in sessantasette metri quadrati, il desiderio di raggomitolarsi tra i giocattoli nello sgabuzzino, la terribile voglia di sprofondare sotto le coperte immaginando un mostro che ne fuoriusciva piegato come un pupazzo di pezza, poi una campana bianca e le palpebre che si aprivano e chiudevano velocemente. La forza smisurata del pensiero e della potenza individuale.
Sarebbe stato bello vivere disegnando arcobaleni nel cielo.
La vita non era al suo capolinea sebbene ad aiutarla era lei stessa, viaggiava ad una velocità sorprendente come se fosse un treno, lo stesso treno che le roteava attorno costantemente. L’acqua che scorre, le mani che si lavano a vicenda, dimentiche del ripugnante atto e sorridendo vi era l’orgoglio, la soddisfazione di ogni minimo conato che conduceva ad un’implosione interna. Avrebbe desiderato rimpicciolire nel suo stesso involucro giacché era proprio questo ad infastidire così come ciò che conteneva, uno stomaco troppo grande, un fegato imbarazzato, dei polmoni capricciosi, un cervello non abbastanza grande ed un utero ingombrante. Dovevano esplodere.
Il trucco colava, la sigaretta veniva posata sulle labbra ed accesa rinunciando ad un altro briciolo di vita, la disprezzava, non ne aveva bisogno, la rincorreva e la sbeffeggiava. Già in precario equilibrio chiunque avrebbe detto di non farlo, il mentolo pizzicava contro le pareti della gola, le narici fremevano e quel sapore inconfondibile scendeva lungo la trachea. Scendeva, scendeva. Li vedeva gonfiarsi e restringersi e poi fuoriusciva candido.
Se la vita è corta in principio perché accorciarla direte voi, esattamente contrario è il principio che la muoveva a tanto, essendo corta aveva bisogno di essere vissuta come si doveva. Nei sollazzi, nei sorrisi, nelle speranze inattese e in quelle attese, ogni cosa aveva il suo perché ed è bene che ogni esperienza avesse il suo sapore anche se questo non avrebbe dovuto convivere con un rimorso. Il rimorso stesso di non aver provato, di non aver scelto e di non aver goduto. Che distorta filosofia del piacere. Tra i tremori romantici s’insinuavano, scorrendo la penna rilasciava inchiostro e questo penetrava nelle pagine, dalle pagine il sapere nella mente, lungo le sinapsi e la terminazione nervosa componeva, si beffava del destino assaporando il presente come se fosse gelato. Così imparò le disavventure dell’imperialismo, il pessimismo leopardiano e la filosofia romantica, incontrando autori già conosciuti e condivisi, probabilmente male interpretati ma nella speranza che almeno uno di essi l’avrebbe compresa. Una mano sorregge la testa, il pensiero si sofferma lontano: onda, triangolo cerchio blu. Che ricordi saranno?
Nulla è mai abbastanza, nulla è mai certo ed ancora, ancora, ancora, l’avrebbe fatto di nuovo, avrebbe compreso meglio delle parole, sarebbe diventata ancora più grottesca ai suoi occhi, non avrebbe sopportato la vista del proprio corpo dinnanzi allo specchio ed avrebbe ricominciato a scrivere la medesima cosa che era stata cancellata, con insistenza.
Dovresti fare qualcosa per cui essere ricordata.
Dovrei ricordare innanzitutto.
Dovresti prendere cento.
Dovrei prendere coscienza di me.
Magnifico. Sei un’artista.
Sono una bugiarda.
Non è mai abbastanza.
Mai abbastanza. Mai abbastanza. Mai abbastanza.
È stato bello raccontare la mia storia.
Lo so.
Non ho mai compreso cosa fosse realmente il sangue sino a quel giorno, un liquido rosso un po’ più denso degli altri dotato di una consistenza simile a quella dell’olio, in grado di asciugarsi e rapprendersi a proprio piacimento se posto al contatto con l’aria, là dove particelle ematiche piangono la propria sconfitta stillando via una goccia dopo l’altra da un corpo in disuso il quale ha perso ogni speranza dopo il primo getto. Non era niente di tutto questo.
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